Scopritore di talenti calcistici da anni vive a Trofarello
Per chi si occupa di calcio e ha i capelli brizzolati Sergio Vatta è ancora un nome, e che nome.Uno dei più grandi scopritori di talenti, un allenatore vincente nel settore giovanile, soprattutto del Torino.
Dalmata di Zara, dodici anni passati nei campi profughi dopo l’esodo forzato del 1947, Vatta vive da molto tempo a Trofarello dove ancora oggi che ha 78 anni percorre sei chilometri di corsa al giorno, circa 1800 in un anno, per mantenersi in allenamento. Ora è un po’ acciaccato per via di una fastisiosa artrite che gli blocca il ginocchio, ma giura che presto tornerà in forma. Invitare Sergio Vatta a parlare di calcio è come chiedere a un bambino goloso se vuole entrare in una pasticceria. Non dice mai di no, e il suo bagaglio di ricordi riporta a personaggi e situazioni che per l’appassionato di calcio sono un piacevole tuffo in un mondo che spesso è visto sotto prospettive falsate, dove non mancano sorprese e curiosità. Quanti sanno ad esempio che Vatta segnalò al Torino un ragazzino che giocava nelle giovanili del Partizan Belgrado, Stefan Babovic, centrocampista di talento che i dirigenti granata non vollero nemmeno tenere d’occhio? O che durante l’esperienza in Grecia al Paok di Salonicco, dove vinse la Coppa nazionale con la quadra giovanile che forniva 14 giocatori alla Nazionale, gli misero a disposizione un elicottero per gli spostamenti, nel periodo in cui si assunse la responsabilità della prima squadra, prima che un crack da 400 milioni di euro infrangesse il sogno dell’allora presidente? Quanti ancora, anche fra gli addetti ai lavori, sanno che il Barone Nils Liedholm, morto a 85 anni nel Monferrato che aveva eletto a sua residenza dopo aver allenato squadre come la Roma e il Milan, un giorno disse che avrebbe voluto allenare la Primavera di Vatta ma in prima squadra?
Abbiamo una curiosità: che cosa pensa Sergio Vatta di se stesso, come si definisce?
«Sono un rivoluzionario silenzioso del mondo del calcio – risponde – Un mondo in cui non mi sono mai sentito a mio agio perché non sono mai riuscito a godere di una vittoria in una competizione. E ho vinto il 70% dei tornei cui ho preso parte con le mie squadre, quattro volte su sette il Viareggio, sei finali di Coppa Italia su sette giocate». Un allenatore che ha avuto meno glorie di quante probabilmente ne avrebbe meritate. Una carriera consumata sopattutto nelle giovanili, del Toro ma anche della Lazio, in Grecia al Paok e in Nazionale ai Mondiali del 1994 nello staff di Arrigo Sacchi. Eppure le richieste non gli sono mancate. «Il Lecce mi ha tormentato per anni, facendo pressioni anche su Moggi quando era direttore del Toro. Ho ricevuto un’offerta miliardaria (in lire) dal Milan per occuparmi del settore giovanile».
E perché ha sempre detto no?
«Perché sono l’unica persona al mondo che detesta il denaro. E il destino volle che finissi proprio a Roma, patria della corruzione».
Come sta il movimento calcistico giovanile italiano?
«Dopo ogni nostro fallimento ai Mondiali o agli Europei si parla del settore giovanile dicendo sempre le stesse cose: che bisogna far crescere i giovani e che mancano le strutture. Ma nessuno conosce l’universo del settore giovanile».
Nessuno come lei, vuol dire…
«Con il Toro eravamo avanti di 30 anni. Io sono stato il primo a portare in società un neuropsichiatra, il dottor Brunelli».
Servono anche queste figure?
«Le faccio un esempio. Sclosa era un buon giocatore ma andava bene soltanto in Nazionale, nella Primavera no. Era molto ambizioso ma modesto. Brunelli mi invitò a non dargli consigli. Sclosa divenne un altro, dopo sei mesi giocava in prima squadra».
Per qualcuno lavorare con i giovani è meno gratificante.
«Il settore giovanile è la vera gavetta di un allenatore, vedi Inzaghi che è stato buttato troppo presto nell’arena. Non ci vuole autorità ma autorevolezza, che devono essere i giocatori a riconoscere. E poi ci vuole pazienza, i tempi di insegnamento sono lunghi. Io ad esempio insistevo a insegnare come si batte un fallo laterale: sembra una stupidaggine, ma per me sbagliare una rimessa in gioco è come sbagliare un calcio di rigore».
Arrigo Sacchi, con un’espressione politicamente scorretta che qualcuno ha scambiato per razzismo, ha sollevato il problema dei troppi stranieri nel nostro calcio.
«Nelle squadre Primavera oggi giocano sei, sette stranieri, una politica che è frutto di intrallazzi. Spesso dietro l’angolo c’è un ragazzo che gioca meglio di molti stranieri ma che non diventerà mai un giocatore perché nessuno lo va a vedere».
Lei invece andava.
«Mi sono consumato le scarpe e sporcato di fango nei campetti di periferia ma ho scoperto giocatori come Cravero, Fuser, Lentini, Francini, Bertoneri».
Quali sono i giovani forti oggi?
«Il migliore è Gabbiadini: ha fisico, fa gol, è resistente, rapido, veloce. Ma davanti a lui c’è sempre qualcuno che gli è inferiore».
Verratti non le piace?
«È un po’ limitato, non è l’uomo ovunque. La capacità più importante è prevedere l’evoluzione del gioco, Verratti non ce l’ha».
E che opinione ha dei nostri allenatori?
«Ventura non mi è simpatico ma è semplice, concreto, un professionista serio: ha lasciato il segno dove è andato. Ha portato le sue squadre a tenere il passo delle grandi, il suo gioco l’hanno copiato tutti».
La Juve quanto deve a Conte?
«Le ha fatto fare un salto di due gradini, ha portato la velocità nel gioco. Allegri può fare dei cambiamenti ma le cose acquisite con Conte nei giocatori rimarranno per sempre. Però anche Allegri ha un grosso merito: ha aperto il pugno con i giocatori, li lascia più liberi».
Lei è stato molto vicino a Sacchi.
«Sacchi è stato un grande, ha rivoluzionato il nostro calcio, ma era troppo legato agli schemi. Un giorno mi disse: io sono il regista e i giocatori sono attori che recitano una parte. Io lo corressi: no, loro interpretano una parte».
Roberto Ponte
ringrazia gli inserzionisti