CENTRO – Una vita dedicata alla medicina, seppur ancora molto giovane. È la storia di Chiara Bonadonna, eccellenza trofarellese, Medico specializzando presso l’ospedale Romano “Policlinico Umberto I”. La giovane dottoressa, 32 anni, coltiva la propria passione per diventare medico fin dall’età delle scuole elementari. «Quand’ero piccola volevo fare la pediatra e andare in Africa ad aiutare i bambini più sfortunati – esordisce Chiara Bonadonna – La passione è nata un po’ per queste percezioni di bimba. È una passione che ho coltivato negli anni fino a quando, dopo il liceo classico a Valsalice, non ho deciso di fare il test di ingresso a medicina. Il mio primo test purtroppo andò male e decisi di ripiegare su biologia. Una facoltà che alla fine mi piacque molto. Dopo un momento in cui non riuscivo ad entrare nell’ottica di fare la biologa. C’ero rimasta molto male per non essere riuscita ad entrare presso la facoltà che desideravo frequentare e ci misi parecchio ad assimilare questa situazione. Decisi comunque di portare avanti gli studi in biologia e mi sono laureata nel 2015 in biologia molecolare e cellulare. Nel momento in cui mi sono trovata ad affrontare il mondo del lavoro, riflettendo con la mia famiglia, mi sono resa conto di voler prendere una seconda laurea: proprio quella tanto desiderata di Medicina. Tutti insieme decidemmo di riprovare a fare il test di medicina, ovviamente mettendo in conti un sacrificio molto importante da parte dei miei genitori. Questa cosa voleva dire sostenermi in altri anni di studio senza lavorare. Sono riuscita ad entrare a Siena dove mi sono laureata in sei anni nel 2022 e dopo la laurea vi è stato l’ingresso alla specializzazione in oncologia, sempre a Siena. Dopo un primo anno a Siena mi sono trasferita, per amore, a Roma. Da quando sono qui a Roma la differenza si sente abbastanza, non è facile passare da un paesino piccolo come Trofarello, a Siena, che comunque è una cittadina a dimensione umana, e poi a Roma, dove percepisco una grossa differenza». Lavora con malati oncologici ci parli delle sue difficoltà? «Ovviamente sono pazienti estremamente delicati. Quello che mi piace dell’oncologia è che è un mondo completamente in evoluzione, rispetto a quello che era qualche anno fa, quand un paziente oncologico aveva una storia con un epilogo segnato, anche nel giro di un breve periodo. Oggi invece, grazie alla ricerca e grazie alle nuove tecnologie, sia in ambito farmaceutico che in ambito chirurgico, si riesce a portare avanti un paziente, con una qualità di vita accettabile, per anni. Il cancro si è trasformato da una malattia ad esito infausto nel giro di poco tempo, ad una malattia cronica. Certo è un percorso lungo, ma ci sono tanti ricercatori che stanno sperimentando, rendendo queste malattie croniche. Permettendo ai malati di sopravvivere con le cure adeguate. Una cosa che sto vedendo è che ci sono moltissimi giovani che si stanno ammalando e questo è difficile da affrontare. Quello che mi piace dell’oncogia è la possibilità di poter dare una speranza, ma soprattutto, la possibilità di dare una migliore qualità di vita, sopportabile per le persone malate. La cosa fondamentale è proprio quella che la persona possa vivere bene».
Che cosa non le piace di questo lavoro? «Non mi piace il fatto che non ci riusciamo sempre. Affrontare determinati pazienti, familiari, o discorsi non è facile».
Dottoressa lei ha una doppia laurea in quanto è medico e biologo. Quanto l’ha aiutata avere una laurea in biologia nel suo percorso di studi oggi in ambito oncologico? «In questo momento, essendo in ambito clinico, la laurea in biologia non è fondamentale. C’è poco di ricerca in quello che sto facendo. Anche se in futuro mi piacerebbe fare della ricerca in ambito oncologico e quindi sfruttare questa seconda laurea. Durante il percorso di medicina mi è servito tanto perché tante cose le avevo già analizzate dal punto di vista molecolare e poi mi si sono presentate in ambito clinico e patologico. E anche studiando mi ha aiutato molto. E poi avendo già fatto un percorso universitario sapevo già come affrontare quegli altri sei anni di università.
Non ho moltissimo tempo per fare altro rispetto a quello che già faccio in ambito medico». Ci racconta una sua giornata tipo? «Bene, mi sveglio presto la mattina per andare all’ospedale Policlinico Umberto I. Iniziano le visite per i pazienti che devono fare la terapia, dalle 8 fino alle 14,30 circa. Dopodiché inizia la parte burocratica: registrare i vari pazienti passati, fare una relazione, piuttosto che altro, insomma tutta una serie di operazioni burocratiche che toccano agli specializzandi, fino alle 19,30 /20 per poi tornare a casa dopo quell’ora. Le cose cambiano leggermente se sono in ambulatorio, perché vediamo i pazienti che stanno facendo terapia ho in Fall Up o prime visite per valutare l’efficacia delle terapie o anamnesi durante la mattinata. Parliamo di circa 12 ore di lavoro comunque in entrambi i casi».
Da studentessa e poi da medico come valuta il servizio sanitario nazionale? Questa sanità che è un po’ tartassata con lunghe file d’attesa oppure la situazione che si crea con proprio con gli specializzandi che spesso sono strasfruttati nel loro lavoro? «Noi avevamo fatto un calcolo della cifra che guadagnamo per il lavoro che facciamo che ha dato un esito umiliante. Ma, a prescindere dallo stipendio, che comunque è una voce importante, la frustrazione sta nel dover lottare contro tutto e tutti in ospedale, curare e gestire il paziente nel modo migliore. Questo è la chiave di tutto. A Torino non ho mai lavorato e non so come sia in ambito sanitario, ogni Regione è un pochino a sé. A Siena e qui a Roma la situazione è molto particolare. Ci sono giorni in cui arrivo a casa e mi dico “basta, ma chi me lo fa fare?”. Perché è frustrante. E’ difficile trovare l’appuntamento, l’aggancio giusto per poter poter gestire al meglio il paziente e questo non dovrebbe succedere. A volte ci sono carenze di farmaci. Diciamo che la situazione non è così florea. C’è tanto sacrificio da parte dei medici e non sempre il risultato è quello sperato. Lanciamo un messaggio di fiducia.… Quello che posso dire è che ci sono tanti giovani che hanno voglia di fare. E’ ciò che ho visto sia a Siena che qui a Roma. Ci sono tante nuove leve che si dedicano anima e corpo a questo lavoro e che hanno voglia di fare, e io mi metto tra questi, la speranza nasce proprio da noi giovani».
Il suo legame con Trofarello? «Tutta la mia famiglia, la mia mamma Marilena Perenno, il mio papà, Rocco Bonadonna, mia sorella Alessandra Molari e tutti gli amici, che sono tanti. Sono cresciuta lì e quindi ovviamente tornare a Trofarello è sempre tornare a casa».