CENTRO – Sulla situazione della guerra Russo-ucraina interviene, con una riflessione personale, Corrado Malandrino, professore a riposo di Storia del pensiero politico e Cattedra Jean Monnet di Storia dell’integrazione europea nell’Università del Piemonte Orientale. «Dopo aver ascoltato la settimana scorsa il ‘dialogo tra sordi’ intercorso tra la vice-prima ministra del governo ucraino, la signora Iryna Vereshchuk, con i giornalisti Lilli Gruber, Massimo Giannini e Lucio Caracciolo, ci si sente spinti con urgenza a porre alcune domande.
La vice-prima ministra ha rappresentato con irremovibile fermezza, degna della weberiana etica della convinzione, la scelta di resistere fino alla fine contro la criminale aggressione russa. Alle domande rivoltele su quali minime realistiche concessioni si potessero fare per portare avanti trattative con un minimo di speranza di essere accolte, non ha sostanzialmente risposto trincerandosi dietro le ragioni storiche ucraine dell’esser vittime della reiterata prepotenza e dell’aggressione russe; chiedendo quindi ai russi di recedere per primi dall’iniziativa bellica e agli occidentali di dare l’aiuto richiesto di una ‘no fly zone’ e di fornitura di aerei – esordisce Malandrino – Orbene, è chiaro che ancora una volta bisogna partire da una recisa condanna dell’aggressione armata del presidente russo Putin all’Ucraina. Essa è un crimine contro l’umanità e sta producendo orribili devastazioni, moltissime vittime e va contro i principi basilari dell’ideale dell’Europa unita che noi coltiviamo e difendiamo e che, con l’integrazione socioeconomica e politica, in settant’anni siamo riusciti a raggiungere e consolidare: l’idea che la pace perpetua deve superare la condizione di guerre continue che ha caratterizzato il nostro continente fino alla seconda guerra mondiale. Sotto questo aspetto la decisione di Putin ricorda nella sua logica l’abominio perpetrato dai capi delle guerre balcaniche nell’ultimo decennio del Novecento e pone il presidente russo su una china che, se non fermata in tempo, non può che condurre a una conclusione spaventosa.
Ma, detto questo, ci si chiede se non sia il tempo di porre ai capi dell’Ucraina e dei paesi che la vogliono sostenere la domanda se, a questo punto, di fronte alle rovine della guerra e alla prospettiva di distruzioni ancora maggiori, con la realistica possibilità di un allargamento alla terza guerra mondiale e alla distruzione nucleare, sia opportuno e conveniente fare ancora discorsi da storici o non, invece, da politici responsabili.
Se cade il tabù della guerra nucleare, se il conflitto degenera da locale a mondiale con la possibilità di immani sconvolgimenti e totale distruzione, se viene messo in discussione il destino di tutti i popoli, anche di quelli più lontani che non vogliono la guerra: non cade allora inevitabilmente la distinzione tra guerra giusta e ingiusta?
Se si continua a fare discorsi rivendicativi da ‘storici’, fino a quando sarà conveniente per gli uni o per gli altri risalire? Fino al 2013, prima dell’annessione russa di Crimea e Donbass? Oppure al 1991, alla fine delle proposte razionali di riforma sovietica di Gorbaciov culminanti nella proposta della ‘casa comune europea’, buttate nella spazzatura della storia dagli stessi russi e dai paesi ‘satelliti’ in nome del principio dell’indipendenza assoluta delle nazionalità? O fino al 1919-1921 quando si decise un nuovo destino per l’Ucraina in seno all’Unione sovietica? Ma andando all’indietro il discorso degli storici andrebbe incontro a contraddizioni sempre più insanabili, per l’una e per l’altra parte, e finirebbe fatalmente nell’opposizione conflittuale irresolubile che nella storia umana ha avuto una plastica, antica, raffigurazione da parte dello storico greco Tucidide nella narrazione della guerra del Peloponneso, quando riferisce il dialogo tra gli imperialisti ateniesi e gli aggrediti abitanti filo-spartani dell’isola di Melo. La prepotenza del più forte finisce sempre per avere il sopravvento, prima che lo stesso più forte faccia anch’egli la stessa fine – continua il professore – Forse allora per gli ucraini è tempo di prendere coscienza della necessità che impone il ‘momento Monnet’ (o il ‘momento Einaudi’ o ‘Spinelli’ se si preferisce). Il momento in cui, come appunto scrisse Monnet dopo le distruzioni di due guerre mondiali e l’annientamento possibile dell’intera Europa per effetto delle nuove armi atomiche, era necessario che nemici storici come i francesi e i tedeschi, insieme agli altri popoli europei, superassero le contrapposizioni belliche della loro storia e si unissero in comunità di destino a cominciare dall’integrazione economica per arrivare all’unità politica.
Gli ucraini, nonostante sia duro e difficile concepire questo pensiero nell’attuale momento in cui sono vilmente e criminalmente attaccati, hanno la possibilità di scegliere questa via prima di una distruzione ancora maggiore per loro e per tutti gli altri. Gli ucraini e i russi, che sono cosa diversa dal loro presidente come le generose dimostrazioni e contestazioni della ‘guerra di Putin’ dimostrano, hanno l’obbligo di ricominciare a parlarsi.
Se questo pensiero ha un senso, allora è necessario che i popoli amici dell’Europa e dell’intero Occidente, attraverso i loro capi, facciano ai capi del popolo ucraino l’invito a parlare da politici responsabili, che siano capaci di tener conto del rischio che comporta la ‘resistenza fino in fondo’: il ventilato allargamento all’uso di armi di distruzione di massa – dalle chimiche alle batteriologiche al nucleare – nell’eventualità del proseguimento di questo conflitto. Ciò significa il passaggio dalla scelta della resistenza ‘fino alla fine’ a una resistenza orientata ‘alla fine della guerra’, nel limite del possibile da individuare tramite trattative serie. Questo può essere solo il risultato del passaggio dei capi ucraini da un’etica della convinzione a un’etica della responsabilità.
Il rischio delle distruzioni massive impone l’obbligo del superamento per tutti di logiche puramente nazionali o imperialiste, che gli uni e gli altri purtroppo continuano a professare. Questo pensiero non può esser frainteso e distorto, traducendolo nella volgare accusa di ‘stare dalla parte di Putin’. Esso nasce invece solo dalla sobria considerazione della necessità di stare dalla parte della nostra civiltà, delle nostre società e dei nostri figli – conclude il docente – E in questa comunità mondiale, tutta messa a repentaglio nell’epoca della possibile distruzione nucleare, se non si vuole correre verso la fine del pianeta la guerra deve diventare di nuovo per tutti un tabù da non infrangere».