CENTRO – I professionisti sanitari in questo periodo sono al centro dei discorsi, dei dibattiti e della cronaca quotidiana. I riflettori si sono accesi sopra una categoria di operatori che svolgono un lavoro fondamentale, ogni giorno alle prese con uno dei diritti fondamentali di cui godiamo e che è tutelato a livello costituzionale dal nostro ordinamento, e a cui tutti facciamo riferimento quando pronunciamo la famosa frase: “la salute prima di tutto”. Così Città ha deciso di ascoltare le loro voci, per capire come sia cambiato il loro lavoro durante questa emergenza, quali siano state le maggiori difficoltà e quali le riflessioni per il futuro.
Giulia Marseglia, 24 anni, infermiera presso la clinica Cellini HUMANITAS di Torino, racconta così la sua esperienza. «Il lavoro è cambiato, perché ci siamo trovati a dover erogare un’assistenza rivolta a pazienti Covid positivi e con problemi clinici “diversi” dai soliti con cui lavoravamo fino a qualche giorno prima. Ci siamo dovuti ambientare ad una turnistica diversa e sapevamo che, una volta vestiti con i dispositivi di sicurezza necessari ed entrati nel reparto, non potevamo uscire, bere, mangiare o andare in bagno, se non a fine turno o per necessità non procrastinabili. Assistere questa tipologia di pazienti non è stato facile, non solo a livello pratico ma anche emotivo».
E proprio sulla dimensione emotiva Giulia spende parole che rendono l’idea delle difficoltà che questi operatori stanno vivendo. «Le emozioni messe in gioco sono state tante: lo stress, la stanchezza, la paura, la gratificazione di una guarigione. Non ho trovato facile condividere questo periodo di lavoro a casa: vivendo con la mia famiglia ho cercato di attuare manovre di isolamento preventivo per quel che riuscivo. Con il tempo, io e i miei colleghi ci siamo abituati a tutto questo. Tuttavia, questo periodo ha decisamente rafforzato la mia passione per questo lavoro.
Infine, Giulia racconta delle prospettive per il futuro. «Sicuramente questa pandemia ci ha cambiati: improvvisamente ha stravolto la nostra routine. L’accesso alle strutture sanitarie per un po’ di tempo sarà diverso; bisognerà prendere precauzioni per evitare il più possibile il contagio sia tra il personale che tra i pazienti. Da infermiera vorrei che cambiasse la visione della società (se non tutta, la gran parte) rispetto la mia professione, che da tempo non riceve il giusto peso socio-economico. Spero che venga dato riconoscimento ad un elemento cardine dell’assistenza sanitaria e che tutte le gratitudini ricevute oggi siano durature. Da un’esperienza come questa, in cui il tempo sembra essere rallentato, vorrei mandare un augurio, anche a me stessa: che si possano apprezzare meglio momenti e sensazioni a cui prima non davamo il giusto tempo e peso poiché coinvolti dai ritmi frenetici della società in cui stavamo vivendo fino a pochi mesi fa».
Marta Mondillo, 29 anni, lavora in un reparto di chirurgia oncologica, presso l’ospedale Mauriziano. Marta sottolinea innanzitutto il fatto che il reparto di chirurgia oncologica è stato trasformato in padiglione Covid, mentre «noi siamo stati trasferiti in un altro reparto, per continuare la nostra attività, perché, trattandosi di pazienti oncologici, gli interventi non potevano essere rinviati. Il reparto è diventato più piccolo, con metà dei posti letto e il ritmo degli interventi è rallentato. Si effettuavano solo quelli urgenti». Marta dice di aver vissuto positivamente l’esperienza in questo periodo dal punto di vista della sua professione. «Con pochi pazienti abbiamo potuto dedicarci all’assistenza verso i pazienti in modo eccellente. Abbiamo avuto la possibilità di fermarci e rallentare, per dedicarci bene alle persone. Ha fatto bene a noi professionisti e ai pazienti perché abbiamo avuto il modo di prestare più attenzione a cose che nel tram tram di tutti i giorni purtroppo spesso venivano trascurate. Tutto questo vale anche nel rapporto coi colleghi. Abbiamo avuto la possibilità di conoscerci meglio tra di noi».
Dal punto di vista della percezione personale, Marta mette in evidenza la spinta positiva ricevuta da questa esperienza, senza certo tacere su alcuni aspetti negativi. «Questo periodo ha rafforzato la mia passione: ho avuto modo di consolidare le mie conoscenze. Il lato negativo è stato quello organizzativo: l’équipe si è scissa, perché una parte di noi è rimasta al padiglione Covid e l’altra, me compresa, è stata trasferita presso il nuovo reparto, con tutte le difficoltà del caso. I turni sono diventati più pesanti, con più notti, meno riposi».
Per quanto riguarda il futuro la linea di Marta non si discosta molto da quella di Giulia, e probabilmente si tratta di riflessioni che tutto il mondo delle professioni sanitarie sottoscriverebbe. «Il modo si è accorto di noi, siamo stati protagonisti. È diventato noto a tutti che tipo di lavoro sia il nostro. È un lavoro pesante e usurante, ma è una parte della nostra vita, e penso che le persone si siano accorti dell’impegno e dei sacrifici. Speriamo che ci sia una maggiore consapevolezza dell’importanza del SSN e della necessità del porsi in un certo modo da parte dell’utente nei confronti degli operatori».
Infine, Francesca Squillari, 24 anni – infermiera presso l’ospedale di Casale Monferrato – si focalizza inizialmente sul rapporto con i pazienti, per poi concludere con una riflessione sulla poca valorizzazione del suo lavoro in termini di trattamento economico. «In questo periodo è cambiato soprattutto il rapporto con i pazienti, che è molto distaccato: parli con loro attraverso una tuta, un visor facciale, la maschera che spesso modifica anche la tua voce. Cerchiamo il più possibile di rendere ugualmente confidente il rapporto con i pazienti scrivendoci i nomi sul camice (visto che neanche il viso riescono a vederci) o a volte, quando c’è tempo, dialogando con loro, dal momento che sono chiusi in una stanza, spesso anche da soli. I turni sono cambiati: siamo passati da 8 a 12 ore, per ottimizzare il personale e i dispositivi di protezione. Turni stancanti, mentalmente e fisicamente. Posso dire che questo periodo ha rafforzato la mia passione: vedere i pazienti migliorare e sentire la voce dei parenti commossa dalla felicità quando li videochiamiamo dopo giorni che non si vedono mi rende orgogliosa di essere infermiera. Risceglierei questo lavoro altre mille volte. Penso, infine, che per il lavoro che svolgiamo non siamo per nulla valorizzati, soprattutto economicamente, sia in relazione agli orari di lavoro, sia per i turni e le responsabilità sempre maggiori».
Davide Lucchetta