CENTRO – La danza è un’arte, è cultura. E purtroppo, come ogni forma di cultura in questo periodo, anche la danza non sta attraversando un periodo facile. Con Città intervistiamo Cristina Trinchero, direttrice artistica e fondatrice del “Centro Studio Danza Cristina Trinchero”. Una vera e propria istituzione del panorama artistico trofarellese, che è cresciuta negli anni è che si è affermata a livello nazionale e internazionale, in particolare per quanto riguarda lo studio del balletto accademico.
In che modo questo periodo ha influito sulle attività del Centro?
«È un periodo difficile. Già prima lo era, perché la danza in Italia non viene vista e considerata in quanto arte, ma è stata messa in un grande calderone insieme allo sport. La danza non è uno sport, ma un’arte e in quanto arte è cultura, e la cultura come ben sappiamo non vive proprio un periodo luminoso. Certamente la pandemia ci ha messi tutti in ginocchio, scuole di danza comprese. Questa chiusura inaspettata non ci permette di lavorare, ma al contempo dobbiamo far fronte alle spese quotidiane e mensili di affitti, bollette, il lavoro di dieci insegnanti. Insomma, non stiamo patendo solo noi gestori, ma anche tutte le persone che collaborano con noi: dagli insegnanti, fino ai pianisti accompagnatori, i sarti, i negozi di abbigliamento per la danza, i tecnici teatrali, i teatri stessi, perché è grazie a noi che i teatri lavorano. Il mondo della danza è quindi molto più grande di quello che si possa immaginare, e sta soffrendo tantissimo. E purtroppo non eravamo considerati prima, figuriamoci adesso! Qualcuno ultimamente ha parlato di danza, si è parlato di stanziamento di fondi e di aiuti, ma al momento nulla di fatto, nulla di concreto è arrivato, se non la notizia che noi potremo riprendere dal 18 maggio, che mi sembra una mossa azzardata. Noi ci consideriamo una scuola quindi ci comporteremo come si comportano le scuole, perché abbiamo bisogno di normative, di poter seguire dei passi in totale sicurezza sanitaria, e non possiamo correre il rischio di assumerci delle responsabilità che non ci competono. Poi speriamo che qualcuno si ricordi di noi, speriamo che, quando passerà tutto questo delirio, la danza possa rinascere, perché peggio di com’era prima sicuramente non sarà. Certamente questo è un periodo che ci sta dando voce perché tutte le scuole di danza a livello nazionale stanno insorgendo. Ci si è finalmente resi conto che siamo una grandissima realtà. Sono più di 50mila le persone che danzano, i ragazzi che si appassionano, sia a livello amatoriale sia professionale . Non si può quindi far finta che la nostra categoria non esista. E soprattutto non possiamo essere messi in un unico calderone insieme a tante altre attività, meravigliose, che però non hanno niente a che fare con la nostra: abbiamo esigenze di spazio e di lavoro differenti, e, per tenere in piedi una struttura, ci vogliono davvero tantissimi sacrifici. Un’insegnate di danza non fa questo mestiere unicamente per un discorso economico. Chi insegna danza lo fa per grande passione e chiediamo che almeno questa cosa ci venga riconosciuta, perché facciamo un lavoro a livello sociale importantissimo».
Quali contromisure avete adottato nei confronti della chiusura?
«Dal punto di vista organizzativo, in questo periodo abbiamo fatto una cosa importantissima: non ci siamo abbattuti. Dopo la chiusura delle scuole, tempo una settimana per organizzarci, siamo ripartiti online. Teniamo quotidianamente lezioni online: abbiamo iniziato con i corsi dei più grandi, perché i sapevamo sarebbe stato più facile per loro gestire la dimensione tecnologica del tenersi in contatto. Per cui la Scuola c’è, le lezioni si tengono regolarmente, i nostri allievi e famiglie hanno capito lo sforzo che c’è stato per tenere in piedi la struttura, e soprattutto per tenere legati i ragazzi. Hanno capito il grande valore sociale del nostro lavoro. Così ci appoggiano. Riceviamo quotidianamente messaggi di ringraziamento e di apprezzamento. Molti genitori ci scrivono dicendo che non si aspettavano che il nostro lavoro fosse così difficile. Perché quando si vede il prodotto finito è tutto bello: il ballerino è formato, noi abbiamo inciso i muscoli, abbiamo plasmato la struttura fisica, abbiamo insegnato e ripulito i movimenti, abbiamo insegnato a sorridere ascoltando la musica, raccontando una storia, ecc. Per cui il risultato che i genitori vedono è sempre quello di una cosa fatta col sorriso, senza difficoltà. Che è tipico della danza: la fatica non deve trasparire. Quindi oltre la fatica fisica che il ballerino fa, ci deve essere anche quella artistico-espressiva, che va a coprire tutto il lavoro che c’è dietro. Per cui assistendo le lezioni da casa i genitori possono rendersi conto di quanto sia meticoloso e preciso il nostro lavoro. Per questo io ringrazio tutti quelli che ci appoggiano, soprattutto le molte famiglie che hanno fatto delle donazioni alla scuola».
Quali prospettive per il futuro?
«Sinceramente non so quanto questa scuola potrà sopravvivere dopo questa pandemia, ma certo è che cercheremo di restituire il più possibile a livello emozionale tutto quello che è stato fatto per noi da molte famiglie in questo periodo. Alcuni sono stati scettici all’inizio, ma quando hanno iniziato a seguire le lezioni da casa hanno visto il lavoro che c’era dietro e si sono convinti. E tutti quanti alla fine si sono lanciati in questa nuova iniziativa delle lezioni online. Ma non è comunque stato tutto così semplice: tutti sanno quanto possa essere difficile insegnare, e lo è ancora di più se bisogna farlo online. Anche noi insegnanti abbiamo dovuto adeguarci a quello che è stato un nuovo approccio virtuale per cercare di tenere in piedi l’attenzione di ragazzi e bambini. Fortunatamente, la grande disciplina insita nella danza in questo caso ci è venuta in aiuto, nel senso che tutti i ragazzi e i bambini sono molto disciplinati, seguono in silenzio le lezioni, non sgarrano di una virgola e questo ci dà la possibilità di poter continuare con le nostre attività».
Davide Lucchetta