CENTRO – In una precedente edizione abbiamo trattato del tema Coronavirus attraverso la voce del Dottor Ciravegna, che, da professionista in campo medico, ha chiarito molti dubbi in merito a una questione che sembrava ancora lontana dal prendere la piega che poi ha preso, soprattutto nel nostro Paese. È evidente che le opinioni dei professionisti stanno passando in sordina, dal momento che la forza del coinvolgimento di massa e dell’isterismo sociale che ne deriva stanno conducendo a una situazione che, a ben vedere, ha del paradossale: dalle opinioni di medici e specialisti del settore che dicono di non impanicarsi per le mille ragioni che ormai conosciamo, si passa a misure cautelari e di prevenzione che di certo non fanno pensare a una situazione di normalità, e di fronte alle quali è difficile non reagire in modo allarmista o almeno con una giusta dose di preoccupazione. È per questo che abbiamo deciso di intervistare alcuni ragazzi, per capire le loro reazioni e per vedere in quale misura la loro vita è stata toccata dai provvedimenti di contrasto al Coronavirus.
Elena Turetta – Infermiera pediatrica – racconta così la sua esperienza: «Mi ero già documentata all’arrivo del Virus in Italia e, di conseguenza, non ho attuato nessuna modifica della mia routine in quanto si tratta di una patologia influenzale, sovrapponibile a livello di sintomi a quelle stagionali per soggetti che godono di buono stato di salute. Inoltre applico già quotidianamente, anche prima dell’avvento del virus, le norme igieniche di base precauzionali. La reazione generale trovo sia decisamente eccessiva e alimentata dall’ignoranza e dalla disinformazione trasmessa dai media (tv, internet con fake news, social media…). Questo virus ha sicuramente un tasso di contagio superiore a quelli mediamente conosciuti, ma, in relazione alla sintomatologia che presenta, questo clima di “panico generale” che si è creato non ha senso. L’atteggiamento corretto da tenere di fronte a queste circostanze è quello dell’informarsi quotidianamente attraverso fonti affidabili e applicare le norme igieniche suggerite dall’OMS». Come hai vissuto nel tuo lavoro la situazione che si è creata? «Per quanto riguarda la mia azienda Sanitaria, le misure precauzionali si stanno applicando progressivamente: sono stati creati dei percorsi dedicati a chi si presenta con sospetto di contagio. Sono aumentati notevolmente gli accessi in Pronto Soccorso per sospetto contagio. Nella mia realtà lavorativa si pone maggiormente attenzione alle precauzioni di base essendo un ambiente ad alto rischio di contagio».
Rebecca Rumore – studentessa di medicina – racconta che la sua reazione iniziale non è stata quella di dare troppa importanza alla notizia, almeno finché il problema è restato confinato alla Cina, anche perché «la famiglia del Coronavirus non è una famiglia sconosciuta, anzi io stessa l’ho studiata in alcuni esami che ho sostenuto, quindi la notizia non aveva generato in me troppa preoccupazione. Come si è visto, e come noi studenti già sapevamo dai libri, a livello epidemiologico di incidenza, poco si discosta dalla normale influenza, anzi, come gravità, è forse peggiore l’influenza normale: nessuno, però, ci parla dei decessi che ci sono per l’influenza nel mondo quotidianamente. Nel momento in cui il virus è iniziato ad arrivare anche in Italia, la gente secondo me ha iniziato a esprimere male il concetto di influenza e polmonite: girare con le mascherine come se fossimo vittime di un virus in grado di uccidere letalmente mi sembra esagerato. Il grande problema è il giornalismo. Dai primi casi in Italia, quello del Corona Virus è diventato un tema da scandalo, da prima pagina, da pandemia mortale: forze dell’ordine che bloccano le città, isolamenti, continui aggiornamenti sul numero dei contagiati. Sarebbe stato meglio affidarsi a fonti sicure, come il Ministero della Sanità, ma come sempre la notizia ha preso il sopravvento sull’informarsi in maniera ragionata e da fonti certe». In qualità di studente, Rebecca ha vissuto in prima persona le difficoltà legate alle misure cautelari. «Io sono stata coinvolta in prima persona perché non ho potuto dare un esame. Prima che fissino una nuova sessione e stabiliscano le nuove date passerà molto tempo. Sicuramente ci rimetteremo tutti: da chi rimarrà indietro di uno o più esami, chi doveva laurearsi è non ce la farà secondo i tempi previsti ecc. Però l’emergenza c’è è bisogna adeguarsi. Secondo me è comunque necessario mantenere la situazione di chiusura delle scuole, università, enti ecc, almeno ancora per una settimana, (Cosi come è stato fatto Ndr) visto il tempo di incubazione del virus, altrimenti le misure prese finora rischierebbero di essere vane».
Samuele Ruffino – studente di Ingegneria al Politenico di Torino – esprime così il suo punto di vista. «Appena sono giunto a conoscenza del primo caso in Italia c’è stata un po’ di paura, soprattutto dopo che ho visto succedere in Cina, dove hanno blocca città e milioni di persone. Poi, ragionandoci, ti dici che sicuramente sarebbe arrivato anche da noi, perché ormai è impossibile rimanere isolati, ci muoviamo da una parte all’altra del mondo in tanti, ed è giusto così. Bisogna quindi trattare l’argomento con cautela. Ciò che fa più paura, però, è il clima che si è creato. Ben venga che ci sia il rispetto per la “cosa pubblica”, quindi rimanere a casa ed evitare i luoghi affollati, però c’è chi adotta misure eccessive. Il peggiore dei casi è sicuramente quando la paura viene sfogata attraverso una reazione di violenza contro gli altri, o contro chi si pensa sia la causa del contagio. È giusto che le istituzioni si adoperino come se la situazione fosse di emergenza, ma ritengo sbagliato che si abusi di questo termine, soprattutto nel quotidiano: nei media la parola Coronavirus o Covid19 è sempre associata alla parola emergenza. Sembra che tutti oggi vogliano essere massimi esperti del tema, e questo contribuisce a diffondere il panico. Sono convinto che la paura generale si assopisca col tempo. Il numero dei contagiati non diminuirà improvvisamente, ma, parlandone di meno, togliendo le misure di sicurezza, rassicurando la gente, questo aiuterà a essere più tranquilli. Ovviamente questo non deve far abbassar la guardia, soprattutto per rispetto delle persone più a rischio: è vero che chi muore spesso è un anziano o un immunodepresso o un malato, questo non significa che non si debba pensare alla salute di queste persone».
Infine, Davide Nirta, studente di Scienze Internazionali dello Sviluppo e della Cooperazione, aiuta a far chiarezza in merito alla domanda che sorge più spontanea in questo periodo: Perché secondo te, c’è così tanta discrepanza tra ciò che dicono gli esperti e le misure cautelari adottate? «Penso che le misure cautelari adottate dal governo e dalle autorità pubbliche siano dovute a diversi fattori: in primis non appena il virus è arrivato in Italia le informazioni che si avevano non erano estremamente chiare e le persone stavano iniziando a manifestare i primissimi sintomi legati alla paura, di conseguenza sono state adottate misure molto rigide che hanno a loro volta alimentato un circolo vizioso che ha portato all’esplosione del panico collettivo. C’è da dire però che gran parte di queste misure precauzionali ritengo fossero in qualche modo necessarie poiché il sistema sanitario nazionale molto probabilmente non avrebbe retto una diffusione su larga scala dell’epidemia che per quanto nel 95% dei casi risulta essere non pericolosa avrebbe comunque messo a dura prova il Paese. Penso infine che nelle misure adottate ci siano in qualche modo, seppur in minima parte, dei riflessi legati alla sfera propriamente politica: la politica italiana ritengo abbia voluto dare anche una prova di forza nella gestione dell’emergenza. Se si fosse affrontata una questione di questo tipo, che già stava spaventando i cittadini, con modalità più discrete probabilmente ci sarebbero state conseguenze in termini politici. In ogni caso è sempre meglio prevenire che curare, anche se penso che nelle misure precauzionali adottate sia mancato da subito un dialogo delle autorità mirato a tranquillizzare le persone spiegando loro cosa stesse succedendo». C’è qualcosa, secondo te, che non vogliono farci sapere? I media e i social rappresentano un problema/minaccia/opportunità in casi come questo? «Personalmente non sono un sostenitore delle teorie cospirazioniste. Non penso che gli Stati o la comunità scientifica vogliano tenerci all’oscuro di qualcosa e non penso ci si debba preoccupare di questo ma anzi, penso sia importante riprendere il prima possibile la strada della normalizzazione, soprattutto ora che siamo a conoscenza dei pericoli reali legati all’epidemia. I media e i social rappresentano un’opportunità enorme in casi come questo. Purtroppo, però, nel caso in questione hanno agito in modo completamente controproducente: è stato da subito fatto dilagare il panico proprio da queste fonti, che hanno cercato di lucrare sulla situazione cercando di attirare l’attenzione su di loro attraverso l’amplificazione della paura, l’informazione sull’epidemia è stata così trasformata in una sorta di show».
Davide Lucchetta