Da qualche tempo sulla mia scrivania staziona una volpe. Un’amica furba che mi aiuta a superare le mie risapute ingenuità. Questa settimana siamo andati a mangiare al ristorante cinese. Lei non ama le nuvole di drago ma è goloso di riso alla cantonese, involtini di primavera e va pazzo per il pollo alle mandorle. Mentre sgranocchia le mandorle, dopo essersi pappato il pollo, mi dice: «Di… hai visto che siamo gli unici nel ristorante? Ma che è successo?» «E’ l’effetto Coronavirus. La gente ha paura ed evita i luoghi affollati» gli rispondo per nascondere la cruda verità. «Ma che dici? Ieri sera al MacDonald non si riusciva ad entrare. Vuoi mica dirmi che tutta questa morìa di clienti è il frutto del coronavirus sviluppatosi in Cina? Vuoi mica dirmi che il parrucchiere cinese che ieri sera hai tentato di intervistare mentre ciondolava sulla poltrona nullafacente perché senza clienti è il frutto di un piccolo virus a migliaia di chilometri di distanza? Vuoi mica dirmi che il ragazzo che martedì pomeriggio era seduto sul 45 mentre 20 persone stavano in piedi in fondo al pullman è il frutto della paura?» conclude incalzandomi la volpe. «Senti volpe – gli rispondo – Tutto quello che hai visto è il frutto della malattia più terribile che si sia mai diffusa: un misto tra pregiudizio ed ignoranza. Un virus invisibile da cui è difficile salvarsi».