Centro – 13 marzo 2018: a Trofarello si svolgeva una serata dedicata al Testamento Biologico, durante il quale interveniva Mina Welby, raccontando la storia di suo marito, Piergiorgio Welby e le emozioni vissute con l’entrata in vigore della legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento. A un anno e mezzo da quella data il dibattito torna a riaccendersi, a seguito di una pronuncia della Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale, interpellata dalla Corte d’assise di Milano, ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Per questo, La Città ha deciso di far luce sul tema grazie all’intervento di tre voci autorevoli, capaci di fornire prospettive diverse da cui inquadrare la questione.
Don Sergio, Parroco di Trofarello: «Io partirei dal fatto che la vita è un dono, è una realtà talmente grande che, in quanto credenti, su di essa dobbiamo puntare tutto il nostro impegno davanti a Dio». Ma non è certo intransigente sulla pronuncia della Consulta: «i parametri posti dalla Corte costituzionale mi sembrano seri e sensati. Non mi stupirei se il legislatore intervenisse sul tema del suicidio assistito, ma lo dovrebbe fare in maniera ragionata, con strumenti di sostegno psicologico e di accompagnamento del malato». Si pronuncia poi su chi prende posizioni troppo nette e intransigenti. «Ho visto persone contrarie al Testamento Biologico in nome di Dio. Come in Nome di Dio? Certamente Dio dice non ammazzare gli altri e te stesso, ma non posso arrogarmi la pretesa di parlare a nome di Dio».
Stefano Francescon, paladino dei diritti nel panorama trofarellese, interviene così sulla questione: «Per me la sentenza della Consulta è stato un grande faro. Per due motivi. Primo perché i Tribunali sui temi etici arrivano sempre prima della politica. D’altra parte la sentenza apre un dibattito […] che impone di porsi una domanda: se tu fossi coinvolto in prima persona, quale scelta faresti? – e continua – Il tema è vasto, ma la decisione è comunque molto personale […] Io sono convinto che la libertà di ognuno di noi debba essere al primo posto. E sottolinea il traguardo dell’istituzione del registro per le DAT presso il comune di Trofarello: “è una possibilità di libertà in più che viene data». Infine, evidenzia la necessità di non esasperare la questione: «la Consulta parla espressamente di malattie irreversibili. […] La discriminante sta nel fatto che bisognerebbe riconoscere realmente quali siano tali malattie, che è diverso dal suicidio assistito richiesto, per esempio, da un malato psichiatrico».
Infine è rilevante la posizione del dottor Giovanni Ciravegna, medico ospedaliero, specialista in Medicina Interna con master in Bioetica, che si pronuncia sulla relazione medico-paziente e su come questa potrebbe cambiare a seguito della sentenza della Consulta. «Una relazione medico-paziente proficua si fonda su un giusto equilibrio fra l’autonomia e la responsabilità professionale del medico e l’autonomia ed il consenso del paziente. Medico e paziente devono cooperare: il medico non può proporre cure inappropriate e non proporzionate che configurerebbero un accanimento, né d’altronde può diventare il mero esecutore delle volontà del paziente. Nella mia pratica quotidiana di medico che lavora in una Medicina Interna non penso che la sentenza della Consulta cambierà il modo di relazionarmi con i pazienti. I “paletti” fissati dalla Consulta delimitano casi ben precisi (vedi dj Fabo, Welby), non così comuni nelle corsie d’Ospedale. Poi aggiunge: Una morte “buona” è sempre possibile con buone cure palliative, fino alla sedazione profonda continua, senza che si tratti di una morte provocata. Se la finalità non è accorciare intenzionalmente la vita, ma trattare i sintomi fisici e psichici del morire, allora si tratta di cure palliative e non di eutanasia ed in questo modo, forse, si potrà anche prevenire la richiesta di suicidi assistiti».
Ciò che emerge chiaramente da questi interventi è il fatto che non è certo semplice trovare il punto di equilibrio tra etica e i diversi tipi di diritti in gioco. Ancora una volta è compito della politica trattare il tema con la dovuta delicatezza e serietà, senza strumentalizzazioni o forzature giuridiche, al fine di permettere al legislatore e a chi deve applicare la legge il non facile compito di trovare il giusto bilanciamento tra i tanti interessi coinvolti.
La Consulta ha stabilito che, al verificarsi di determinate condizioni (per le quali rinvia alla legge 219/2017), il medico che aiuti il paziente al suicidio non risulta punibile ai sensi dell’articolo 580 del c.p. Si tratta però di una sentenza, non di una legge. Allo stato attuale delle cose, non si può far altro che attendere l’intervento del legislatore, così come richiesto dalla sentenza stessa. Inoltre, i “paletti” posti dalla sentenza sono necessari per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, nel senso che si prospetta un intervento comunque limitato e non, come erroneamente si potrebbe pensare, un intervento a favore del suicidio assistito in toto.
Davide Lucchetta