Francesca
Giornata no. Proprio no. In studio il lavoro era esploso, decisamente oltre le aspettative. Stava diventando davvero difficile incastrare tutto: la casa che necessitava ancora di qualche ritocco – non era mai soddisfatta -, le cause da seguire e la campagna elettorale, che ormai si stava infiammando.
In mezzo a tutto questo il nuovo responsabile di studio, che non perdeva occasione per mandarla in bestia.
Aveva ragione mamma, glielo ripeteva sempre: “Francesca, tu ha troppa poca memoria. Ti calpestano e tu cosa fai? Soffri. E il giorno dopo non te ne ricordi più. Impara ad evitare certe persone! Smettila di fidarti! Ma no… tu no! Tu vuoi andare d’accordo con tutti. Non ti lamentare se poi ti massacrano. Ricorda, le persone non cambiano. Le persone non chiedono mai scusa sinceramente. Anzi, se mostri cosa ti fa male è esattamente lì che colpiranno la volta dopo”.
Francesca non aveva mai creduto a quelle parole. Pensava che potessero capitare delle incomprensioni, ma anche che fosse sempre possibile parlarne, spiegarsi. Era certa che si potesse sempre ricominciare, dimenticando i dissapori.
Ma quel nuovo responsabile aveva demolito questa convinzione, e con essa il suo buon umore. Invidioso. Mai visto una persona più invidiosa. Ribolliva di rabbia ad ogni successo di Francesca.
Lo studio cresceva a ritmo esponenziale e questo significava denaro e prestigio per tutti, ma l’unica cosa importante per lui era che i successi fossero suoi, solo suoi.
Il fatto che Francesca fosse sempre più spesso sui giornali per via della campagna elettorale, e che questo apportasse visibilità allo studio e quindi lavoro, invece di renderlo felice gli faceva avere un travaso di bile ogni volta.
Non perdeva occasione per discutere con lei. “Non hai un briciolo di umiltà – diceva – sei sempre sotto i riflettori. Non è professionale!”.
Francesca non si capacitava. Lei lavorava incessantemente, mettendoci la faccia. Una faccia che evidentemente funzionava, eppure lui non mancava occasione per attaccarla.
Ne avevano parlato. Sembrava che lui avesse capito. Si era persino profuso in scuse ed in complimenti per l’ottimo lavoro svolto e, come sempre, lei aveva dimenticato tutto, continuando a spendere ogni sua energia.
Ma la tregua era durata poco. L’arrivo di un nuovo, importante cliente, grazie ad un suo contatto, aveva fatto riemergere la rivalità. Il “gran capo” di Milano si era complimentato, e questo non era piaciuto affatto al “capetto”. Si era subito sentita rimbrottare – in privato – di avere un approccio troppo personalistico, che non era necessario far sapere che il cliente lo aveva presentato lei. “Tu vuoi sempre essere al centro dell’attenzione – aveva ostinatamente ripetuto – te l’ho già detto, non è professionale!”. E tutto questo mentre in pubblico lui non perdeva occasione di vantarsi della sua presenza, quasi che lei e le sue capacità fossero merito suo.
Francesca proprio non capiva. Lavorava con il massimo impegno, metteva in comune le sue fonti, e nemmeno un grazie. Anzi.
Eppure lei lo apprezzava, era un ottimo avvocato. E non aspirava affatto a scavalcarlo, non ne aveva alcun interesse. Ma non c’era verso. La sua visibilità – fuori da ogni logica – la condannava ad essere regolarmente rimproverata.
Non capiva, ma non le restava che adeguarsi all’evidenza e ricordarsi le parole di sua madre. Avere memoria e smetterla di credere che le persone possano cambiare.
Dopo una giornata così era troppo nervosa per cenare. Era una tiepida sera d’autunno. Fuori era già buio ma l’aria fresca era davvero invitante. Decise di prendere la bicicletta e farsi un giro, per svagarsi un po’.
Pochi metri dopo casa prese la curva verso la parrocchia troppo velocemente, rischiando di cadere. Un campanello d’allarme risuonò nella sua testa, ma fu sommerso dai troppi cupi, delusi pensieri.
Imboccò il viale a tutta velocità, godendosi la frescura sul viso.
Ecco lo stop in fondo alla discesa.
Lo conosceva bene, tutti i giorni si chiedeva che ci facesse lì uno stop ma, rispettosamente, si fermava. Ma non quella sera. Quella sera la testa era altrove.
Una Panda.
Dalla piazza.
Rossa.
Di quelle vecchie.
Non se ne vedono più da un bel po’
…
Poi solo buio.
Enrico
Le giornate passavano di corsa da quando Enrico aveva letto l’articolo sulla candidatura di Francesca. Non sapeva se l’avrebbe mai incontrata in paese, lei immersa nel suo lavoro e nella sua campagna e lui diviso tra i clienti opprimenti e il suo impegno di volontario. Forse non avrebbe voluto incontrarla ma il desiderio di rivederla, guardarla negli occhi, salutarla – con una stretta di mano o un abbraccio, non sapeva – si faceva sempre più forte di settimana in settimana.
Dopo il lancio della candidatura, abbastanza prematuro in verità, silenzio e ancora silenzio. Ma sarebbe durato poco, dopo l’estate la guerra si sarebbe fatta più rumorosa e cruenta, i proclami più iperbolici, i confronti a distanza sarebbero diventati più ravvicinati fino quasi a divenire duelli all’arma bianca.
La mente di Enrico era apatica, svogliata, immersa in un oceano di calma piatta dove solo gli occhi di Sabrina potevano apportare qualche scossone.
A parte i suoi occhi e il suo fisico scolpito da ballerina non c’era molto di più che valesse la pena incontrare in ufficio. L’aveva addirittura incontrata in metropolitana un paio di mattine mentre si recava al lavoro e avevano proseguito il viaggio insieme. Lei era la tipica ragazza che ti fa pentire di esserti dimenticato i biglietti da visita a casa o di non aver passato la tua adolescenza a partorire battute carine per attaccar bottone.
Francesca invece no, non sapeva se l’avrebbe mai più incontrata.
Per fortuna c’era la Croce Rossa e il suo impegno come volontario. Questo gli permetteva di staccare la spina e di mettere il suo tempo – sempre troppo poco in verità – al servizio degli altri. Quelle sere lo costringevano a concentrarsi su altri pensieri, ad avere la mente più sveglia e reattiva nel preciso momento in cui suonava quel telefono. Quando non sapevi se ti sarebbe toccato un bianco, un verde o se era proprio una sera da giallo o, ancora peggio, da rosso. I neri no, non erano contemplati o, perlomeno, non voleva neanche pensarci.
Quella sera era proprio in sede, in via della Croce Rossa, a combattere con la macchinetta per far scendere una lattina che, come al solito, si era incastrata.
Mentre la sorseggiava attendendo lo squillo impietoso del telefono ripensava al corso, qualche anno prima. Al poco che aveva dato e a tutto ciò che aveva ricevuto. In pochi minuti passarono davanti ai suoi occhi i vari esami, il tirocinio, i compagni di squadra, le piadine notturne per festeggiare la fine del turno, il buon vecchio Pongo, il volontario peloso, ricciolina, gatto, le manate sulle spalle, bijou, le amicizie nate tra quelle mura bisognose di un’imbiancata, la partite a calcetto aspettando la chiamata, i sorrisi, i pianti e gli occhi neri, grigi, azzurri e financo blu.
Si dice che quando stai per morire ti passi davanti agli occhi tutta la vita in pochi secondi. Tutta la sua vita in Croce Rossa era qua ma per fortuna Enrico stava bene.
Uno squillo.
Ecco, qualcuno che stava sicuramente meno bene.
Il collega stava prendendo i dati della chiamata mentre gli altri prendevano il telefono, il saturimetro e le giacche.
“Qua vicino, sul viale”
C’era una bicicletta sulla strada e una donna o una ragazza a terra. Il conducente della Panda gesticolava e urlava in evidente stato confusionale.
Enrico si avvicinò alla donna: si muoveva, sembrava riprendersi. Avvicinandosi con un approccio frontale quasi si sentì mancare quando riconobbe Francesca.
Insieme ai compagni fecero le prime valutazioni del caso, sembrava tutto a posto. Messo il collare, la immobilizzarono sull’asse spinale con il “ragno” e partirono alla volta dell’ospedale.
Non era certo il miglior modo per incontrarsi, non era così che avrebbe voluto vederla, salutarla. Ma non importava.
Ciò che importava in quel momento era la sua mano fresca che lui stringeva tra le sue.